Mi interessa l’avventura del processo creativo. Fare dei documentari significa stabilire un dialogo.
(Wim Wenders)
Wenders ha sempre dichiarato la sua grande passione per la fotografia. Basta, per esempio, pensare all’inizio di Alice nelle Città, quando il protagonista scatta polaroid del paesaggio, un paesaggio che in quel caso non gli dice niente. Nel prologo del film, il regista tedesco spiega di come la sua passione per Sebastião Salgado sia iniziata diversi anni prima, quando comprò due sue fotografie. Lungo lo svolgersi di questo film ritroviamo ben esplicate le modalità documentariste che Wenders predilige, sia nel caso dell’esplorazione e dell’indagine, sia di quel suo modo unico di farsi da parte, lasciare lo spazio a quello che la cinepresa ha da raccontarci. Il suo tocco è leggero, si manifesta solo all’inizio per raccontare la genesi di questo documentario e, a poco a poco, sparisce lasciando spazio a Salgado. Emerge forte (in questo racconto), il grande interesse nel raccontare la storia di questo straordinario fotografo, ma Wenders vuole fare qualcosa di più: lascia emergere una parte molto privata di Salgado, esprimendo il suo pensiero non solo attraverso la fotografia, ma dando spazio al suo punto di vista antropologico. Non a caso, spiega di come per lui, gli uomini siano “il sale della terra”, con la grande diversità che distingue tra loro ogni popolo. Il viaggio di Wenders e Salgado si snoda lungo i vari progetti che, nel corso della sua vita, il fotografo ha realizzato: quello in America Latina (il primo che ci viene mostrato), che lo ha tenuto diversi mesi lontano da casa. Si passa poi dall’orrore del genocidio nel Sahel alle grandi migrazioni, dai pompieri arrivati in Kuwait per lo scoppio dei pozzi di petrolio alle splendide immagini delle tribù della Nuova Guinea. Il momento più difficile e tragico arriva quando Salgado mostra le strazianti immagini delle migrazioni di massa in Bosnia e nei paesi africani come Etiopia e Congo, spesso dovute a guerre, carestia e siccità. L’esperienza peggiore che realizza Salgado, stando alle sue parole, è quella in Ruanda, dove assiste al genocidio di milioni di persone e ad una quantità di barbarie atroci, corpi agonizzanti e ridotti in cumuli di ossa, migliaia di bambini strappati ingiustamente alla vita, immagini durissime di persone in lotta estrema per la sopravvivenza. Il fotografo dice apertamente che lo shock subito lo portò in uno stato di forte interrogazione e depressione, tanto è vero che Salgado non fotografò più per un lunghissimo periodo(circa dieci anni). L’insieme della documentazione di queste numerose storie culmina con il racconto dell’ultimo progetto, Genesi, che Salgado sta realizzando insieme alla moglie, attuando un rimboschimento delle zone del Brasile che il caldo e la siccità hanno reso aride. Le immagini che ci restituisce lo schermo sono quelle di una flora boschiva che si va ripopolando. Salgado confessa alla macchina da presa di rifugiarsi molto spesso sotto uno di questi nuovi alberi, per (ri)trovare equilibrio e pace. Wenders chiude così con la positività, lanciando una speranza, dicendoci che oggi la nostra Terra può essere salvata(e migliorata) a partire dalla bellezza e dalla forza della natura che ci circonda che è, come dice Salgado, la nostra fonte di vita.