Calico Skies di Paul McCartney

The McCartneys

Cinquant’anni fa, Paul McCartney cantava “When i’m sixty four”, volendo prendersi quasi gioco dell’età del padre. Forse neanche lui si sarebbe immaginato di essere qui a festeggiarne settantacinque, specialmente per l’energia e la voglia di fare musica che ancora lo pervade. Parlare (scrivere in questo caso), di una canzone tra le centinaia che ha composto è una cosa difficile, di quelle che dovresti pensarci per tanto tempo. E infatti, solo il fato ha fatto sì che la scelta sia caduta su Calico Skies. O forse no, ma questo non è dato saperlo. Paul scrisse questa canzone agli inizi degli anni ’90, salvo poi inserirla nell’album Flaming Pie del 1997. Una chitarra acustica ben accordata basta al suo genio per descrivere con tenerezza una storia d’amore (la sua) o meglio, descrivere quelle sensazioni che hanno portato al nascere dell’idillio amoroso. La voce di McCartney è delicata, mentre la chitarra va a conformarsi alle parole, tra accordi quasi spezzati, scale e arpeggi. “It was written that i would love you, from the moment i opened my eyes. And the morning when i first saw you, gave me life under calico skies.” Immaginare una dichiarazione più limpida di questa è non aver mai provato un sentimento, tanto chiara sembra la prosa con cui Paul vuole rimarcare i piccoli dettagli che rivelano la nascita improvvisa dell’amore. Purtroppo per il genio di Liverpool, Calico Skies suonerà da lì a poco come epitaffio della compagna di una vita, Linda. Qualche anno fa, vidi McCartney suonare all’arena di Verona (ma chiunque può vedere sul web diversi video di questa canzone): sembrava come fosse staccato da tutto il resto mentre intonava la canzone. Un’emozione mi trafisse il cuore, mentre Paul dedicava la sua canzone alla donna che amava. Qualcosa lo faceva sorridere, forse i due comunicavano in quel momento, tra le parole di una canzone.

Piuma

p

Tra le sorprese della scorsa stagione, Piuma di Roan Johnson è stata una di quelle più inaspettate. Il regista anglo/pisano ha saputo raccontare con garbo e divertimento l’arrivo di una figlia nell’adolescenza di due ragazzi (Ferro e Cate). Piuma è un film leggero, che apre la sua visione facendosi apprezzare per il corso della narrazione, e per la scelta della messa in scena, che rifiuta qualsiasi tipo di spettacolarizzazione, a vantaggio di una regia da classica commedia italiana (di quella buona). All’interno dello sconvolgimento che una nascitura porta nella vita dei giovani, Johnson e bravo ad unire i problemi personali, le incomprensioni tra famiglie, la verve comica che caratterizza un racconto adolescenziale. Sebbene non approfondisca mai le psicologie dei protagonisti in maniera convincente, il film si confà grazie agli ottimi dialoghi costruiti in fase di sceneggiatura, fatto che dimostra il ruolo fondamentale di quest’ultima (come amava suggerire Ettore Scola), soprattutto quando il centro nevralgico dell’opera deve affidarsi alle parole rispetto a tutto quello che sta intorno. Forse, lo sguardo bonario che il film ci suggerisce per tutta la durata del suo arco narrativo, pecca un po’ sull’approfondimento sociale intrinseco alla storia, riferendoci alle problematiche reali che una nascita improvvisa causa in situazioni famigliari non perfettamente allineate; ma probabilmente il regista voleva evitare un appesantimento in vista del giovane pubblico che avrebbe visionato la pellicola. Quello che resta è un film godibile nella sua imperfezione, consigliato a tutte quelle persone che al cinema hanno ancora voglia di lasciarsi raccontare una storia.

Noel Gallagher’s High Flying Birds

519gBEQssWL._SY355_

Non è facile uscire vivi dagli anni ’90, specie se la tua band è stata tra le più importanti del decennio. Una frase valida quasi per tutti, eccetto per Noel Gallagher che riesce, con la sua opera prima, non solo a realizzare un album incredibile, ma addirittura nella difficile impresa di non far rimpiangere gli Oasis (naturalmente quelli degli ultimi anni). Un colpo di tosse, e poi una sinfonia di archi e fiati: così nasce Noel Gallagher’s High Flying Birds nelle orecchie degli ascoltatori. Everybody’s On the run, prima delle dieci tracce dell’album, è un’apertura sontuosa, quasi epica, che mostra subito la nuova attitudine musicale di Noel: il brit-pop degli esordi è cancellato da una costruzione musicale completa, che alle chitarre (non più in primo piano), aggiunge assoli di archi e fiati, piano con code jazz. Un taglio netto con il passato? Niente affatto, perché il maggiore dei fratelli Gallagher non rinnega il passato, ma allarga i suoi orizzonti pur mantenendo fede alla sua cifra stilistica, a metà tra Beatles e Kinks. Come non pensare a quest’ultimi ascoltando il singolo d’esordio, “The Death of You and Me”: “I’m watching my TV, or is it watching me? I see another new day dawning, it’s rising over me, my mortality and i can feel the storm clouds sucking up my soul”. Dalle influenze dei Kinks ad un veloce acid jazz, corroborata da una forte suite di fiati (che sostituiscono le chitarre nell’assolo) simile alla New Orleans degli anni ’40. C’è spazio anche per una sorta di polemica politica/sociale in Soldier Boys and Jesus Freaks, fino alle canzoni più vicine allo stile Oasis, da AKA…What a Life (a cui spetta forse il titolo di brano più radiofonico), a Dream On (anche qui influenzata dai fratelli Davies), fino a AKA…Broken Arrow, (che nel titolo cita esplicitamente Neil Young), una ballad che mette in mostra ancora di più, semmai ce ne fosse bisogno, l’abilità da songrwriter di Noel: “Lasciatemi in pace, mi trovo al fianco degli angeli, se morirò in un sogno allora lasciatemi vivere la mia vita. Ma tutte le bugie che mi hanno detto mi fanno venire voglia di rabbrividire, quando sarò solo e smarrito questo non aiuterà la mia mente tormentata”. È però nel secondo brano rilasciato, che l’album raggiunge il suo apogeo: If i Had a Gun… è probabilmente la versione di Wonderwall degli anni ‘10 del 2000, simile sia nella costruzione (basta ascoltare la progressione degli accordi, sebbene una sonorità più arricchita rispetto alla “sorella” di 16 anni prima) che nella cadenza vocale/lirica, che esplode in versi di meravigliosa bellezza: “If you had the dream, show you now what might have been and for the tears you cried will fade away”. L’opera prima di Noel Gallagher, (ancor meglio di quello che sarà il suo secondo lavoro solista), riporta in auge uno degli autori più iconici della musica dell’ultimo ventennio, non solo rialzando l’asticella compositiva, ma esplorando mondi che, fino a poco tempo fa, sembrano lontani miraggi.

Kill for Love dei Chromatics

DAZlBLKVwAAVwla_trptpj

Molto spesso, quando tento di interpretare qualcosa, lascio andare pareri oggettivi e tecnicismi vari, nella speranza di far nascere qualcosa dentro di me con la sola forza delle emozioni, o di quel confuso meccanismo che nasce dentro ognuno di noi quando qualcosa ci piace particolarmente, o ci affascina, o lascia una traccia, o tutte le altre cose che succedono. Per questo, parlandovi del brano seguente, devo tenere fede a questa metodica improvvisata: Kill for love è il terzo brano del disco omonimo, uscito nel 2012, che ha lanciato definitivamente i Chromatics sulla scena internazionale. Un brano ipnotico, caleidoscopico, tra new wave e synth pop, senza disdegnare il rock’n’roll elettrico degli anni ’90. L’intro iniziale, tra sintetizzatori e tastiere con un avvicinarsi di cassa rullante fissa, vale già di per sé l’intera canzone: “Everybody’s got a secret to hide, everyone is slipping backwards”, canta la magnetica Ruth Radelet, portandoci all’interno del brano, una storia costruita sul dibattito personale dell’autrice, che parla in prima persona interrogandosi, con le immagini finali che suggeriscono un delitto d’amore, come da titolo del brano. Una canzone che vale un intero disco (che consiglio a tutti), di quelli che non lasciano indifferenti: vero David Lynch?

Million Dollar Baby

million-dollar-baby

Approcciandomi a scrivere di questo film mi sono messo a pensare a tutte le cose che avrei potuto scrivere: la boxe, l’arte di cavarsela, la morale del sacrificio che ripaga gli sforzi, la grandezza di un regista/attore senza tempo. Avrei potuto parlare di cosa sia la rincorsa al titolo del mondo, qualcosa che usa una cintura da campione sono come immagine di qualcosa di grande; oppure di come Clint Eastwood riesca a farci abitare la storia con una regia poco tecnica e spettacolare, ma semplicemente perfetta. E invece tutto questo scivola via, lasciando spazio alle emozioni: Million Dollar Baby è il ventiseiesimo film diretta da Eastwood, numero che testimonia quante cose abbia da dire quel genio che viene da San Francisco. È una storia di speranze, paure, delusione, cadute e rinascite e ancora cadute. Ma è allo stesso tempo un viaggio alla ricerca di qualcosa e al contempo ad allontanarsi. Maggie (interpretata da una magnifica Hilary Swank), è una ragazza con un grande sogno che vede allontanarsi, sorretta solo dalla forza di volontà. L’incontro con Frankie (Clint Eastwood) terrà viva quella flebile fiammella che brucia ancora, regalandole un sogno inimmaginabile e forse più grande di lei. Le strade dei due si uniscono fino a creare un legame che va oltre il rapporto sportivo, regalando alla donna la famiglia che non ha mai avuto (almeno cosi presente), e all’uomo una seconda opportunità di vita, sportivamente sì, ma è all’interno del cuore la rinascita vera. Un racconto, quello del film, narrato interamente dalla voce esterna (e interna) di Scrap (Morgan Freeman), un vecchio pugile che sopravvive nella palestra teatro della vicenda, e che elenca la storia narrata come le tappe di una lettera per la figlia di Frankie, raccontandole la vera essenza del padre nella speranza di una riconciliazione. Un film gioiello quello di Clint Eastwood, che regala non solo una pioggia di premi e riconoscimenti al suo autore, ma fa breccia nel cuore di ogni singolo spettatore, alla ricerca di qualcosa che molto spesso tendiamo a nascondere, o semplicemente, non vogliamo vedere… o sentire.

Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band 50

sgt-pepper_1

Discorrere di un album, specie quando il suddetto ha rivoluzionato la storia della musica, e provare a realizzare qualcosa di nuovo (un diverso punto di vista diremmo), non è mai facile, soprattutto se parliamo di un capolavoro come Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. L’ottava fatica in studio dei Beatles, a distanza di cinquant’anni tondi tondi, è di quelle che fanno scrivere decine e decine di libri e studi dedicati, nonché nuove ristampe e bootleg, proprio perché l’esigenza di penetrare ogni volta dentro l’opera che i quattro ragazzi di Liverpool ebbero modo di creare è ancora uno dei viaggi musicali più magici e affascinanti. Forse, ancora oggi non comprendiamo la grandezza di questo album: non bastano le dichiarazioni degli stessi Beatles o di George Martin (lo storico produttore) a spiegarci fino in fondo la rivoluzione che da lì in poi si è innescata; e nemmeno notare (nei video arrivati fino a noi) la presenza di band come Rolling Stones, Pink Floyd e King Crimson, che da bravi scolaretti, restavano seduti negli studi di Abbey Road a vedere cosa significasse il genio. I lavori per il disco erano già iniziati da qualche mese quando Sgt. Pepper’s iniziò a conformarsi all’album che diventò: il brano omonimo che apre il disco fu tutta farina del sacco di McCartney (vero papà dell’album), che mise all’interno del brano tutta la sua passione per le brass band che amava ascoltare in gioventù. Sarebbe lunghissimo discorrere di come nacque l’ispirazione per l’album del Sergente Pepper, ma basta ricordare anche qui l’ingegno di McCartney, che giocò sul nome della bevanda preferita del road manager Mal Evans (la leggendaria Dr. Pepper), aggiungendo “Lonely Hearts Club Band”, sorta di incrocio tra le influenze psichedeliche e il vecchio mondo delle orchestre britanniche. Musicalmente, il brano iniziale è costruito sul classico schema rock’n’roll, con l’aggiunta di organo e fiati. “We’re Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, we hope you will enjoy the show”, e subito siamo proiettati all’interno del mondo musicale che spalanca le sue porte.  Tocca poi a Ringo (alias Billy Shears), continuare ad illustrarci le tappe del viaggio. “With a little help from my friends” nacque come un divertissement tra Paul e John davanti a un piano, che pensarono ad una sorta di filastrocca da affidare alla bonarietà di Ringo. Piano e batteria costruiscono la base ritmica della canzone, che vede una marginale presenza della chitarra di Harrison, con Lennon impegnato quasi esclusivamente nei cori. Sebbene fosse una delle tracce meno considerate, alla lunga fu tra quelle più ricordate, grazie anche alle numerose cover, tra cui spicca quella di Joe Cocker. Altro brano, altro mondo che si apre. “Lucy in the sky with diamonds” è il simbolo lennoniano del periodo, in continuo equilibrio tra la vita terrena fatta di pesante vita familiare e l’universo fantastico e immaginario delle droghe in cui John si rifugia. L’lsd, per tutti acronimo del titolo, è in realtà una curiosa coincidenza, sebbene sia impossibile negare la sua influenza. Lennon disegna il suo mondo psichedelico, concedendo qualche piccola aggiunta a Paul, dai “cellophane flowers of yellow and green” ai “newspaper taxis”. Al già contorto mondo lennoniano individuabile nel testo, musicalmente il brano aggiunge mistero, sfruttando la voce raddoppiata dello stesso John, giocata su un intro in ¾ e un ritornello che ha un incidere più deciso in 4/4. In studio, McCartney è il più attivo dei quattro, e lo dimostrano le numerose proposte fatte per l’album (da cui verrà scartata una canzone che qualche mese dopo diventerà The Fool on the Hill). Da “Getting better” a “Fixing a hole”, Paul sembra essere il one man band dei Beatles: scrive, canta, suona, incide e sopra incide, facendosi guidare dall’ispirazione momentanea e i ricordi di eventi passati, fino alle chiacchiere di quartiere. Tra le composizioni di questa fase, spicca “She’s leaving home”, che Paul decide di registrare con l’aiuto del solo Lennon (raddoppiando le voci per creare un coro), sfruttando le sonorità di arpe, contrabbasso e doppi quartetti di archi. L’ispirazione per il brano venne a McCartney leggendo sul Daily mail la storia di una ragazza che scappava di casa in contrasto con i genitori, confermando la nuova pratica di scrittura adottata per l’album. John, che non voleva essere da meno, chiese di aggiungere alcuni versi: “le abbiamo dedicato quasi tutta la vita, sacrificato la vita”, un chiaro rimando alle famose ramanzine della zia Mimì negli anni giovanili. Ad un manifesto capitato un po’ per caso invece tocca l’ispirazione per un’altra puntata del “magico mondo di Lennon”, che in “Being for the benefit of Mr.Kite” spalanca le porte all’arte circense vestita da vecchia composizione vittoriana. La registrazione del brano fu tra le più difficili dell’intero album, dato che Lennon non riusciva a far comprendere agli altri tre cose volesse fare. Neppure George Martin venne risparmiato da John,che cambiava ripetutamente velocità d’esecuzione e ritmica nella speranza di recuperare su nastro quella sorta d’imprevedibilità che il circo riserva sempre ai suoi spettatori. Toccò a Harrison inaugurare il lato B dell’ album,e nessuno aveva dubbi sulle radici che avrebbero portato al suo contributo per l’album del Sergente: “When you’ve seen beyond yourself, then you may find peace of mind is waiting there”. Harrison ebbe l’idea del brano di ritorno da una cena con amici, immaginando le parole che fuoriuscivano dalla mente come le note del sitar. George Martin decise di aggiungere la classica sezione d’archi per “occidentalizzare” il brano, che non vide nessuno degli altri beatle partecipare. Lennon si dichiarò subito entusiasta del brano: “George è limpido in questa canzone, limpida la mente e limpido il cuore.” E ancora Paul a ritagliarsi lo spazio maggiore, con due composizioni come “When i’m sixty four” (brano giocoso/satirico verso suo padre e omaggio alle jazz band dilettanti degli anni ’20) e “Lovely Rita”, prima di lasciare ancora spazio a Lennon e al suo “inno alla pigrizia” di “Good morning, good morning”.  Quando il progetto Sgt. Pepper’s era nelle fasi di lavoro più intense, Neil Aspinall (collaboratore dei Fab Four) aveva suggerito di aprire e chiudere il disco con il brano omonimo. L’idea della chiusura fu accantonata, ma Paul penso che non fosse totalmente campata in aria, cosi in poche ore i Beatles registrarono una brevissima reprise che avrebbe lasciato il campo alla chiusura perfetta. “A day in the life” rappresenta la fine più epica dell’album che avrebbe spalancato il mondo a qualcosa di nuovo. “I read the news today oh boy, about a lucky man who made the grade”. Lennon rimase colpito da alcune notizie lette sul giornale, in un curioso gioco di opposizioni: una drammatica (la morte di un ereditiere per un incidente); l’altra dal tono più frivolo, il conteggio delle buche per le strade di Blackburn (quattromila). John lavorò sul testo appena terminate le riprese del film con Richard Lester “How i won the war”, unendo le vicende in una sorta di colloquio surreale con forti allusioni ai “viaggi” degli allucinogeni. Già questo avrebbe spiazzato e non solo gli ascoltatori, ma i Beatles decisero di cambiare ancora le carte in tavola: la ballad di Lennon venne divisa in due parti, così da realizzare un intramezzo composto da Paul. L’idea dei due premeva su una crescente impetuosità dell’orchestra sul finale, che aiutasse la composizione ad esasperare il distacco e la follia del brano dopo la parentesi giocosa dei ricordi di Paul, figurati nelle immagini proposte dai suoi versi: “Mi sono svegliato, buttato giù dal letto, sono riuscito a scendere per bere un caffè […]. Ho preso l’autobus al volo, sono andato sopra, cominciato a fumare e qualcuno parlava e sono entrato in un sogno.” Dopo un’ardua lotta con George Martin, i due riuscirono ad ottenere quello che volevano: l’orchestra avrebbe suonato 24 battute stabilite, mentre le restanti 15 sarebbero rimaste scoperte a metà tra una breve indicazione e l’improvvisazione più totale. Come se non bastasse, i musicisti dovevano salire dalla nota più bassa del loro registro alla più alta, con gli archi che non avrebbero dovuto pizzicare le corde ma glissare da una nota all’altra. Quella che venne fuori fu una composizione volutamente caotica, con Paul che urlava di suonare fuori tempo senza risparmiare le stonature, e John che distorceva il canto per ricreare una voce il più simile all’Elvis di “Heartbreak Hotel”. Il finalissimo, fu ancora un’intuizione a metà tra Lennon e McCartney/Martin, con i tre (a cui si aggiunsero George, Ringo e Mal Evans) che su un pianoforte suonavano violentemente un’unica nota sul pianoforte in modo violento per ricreare un Mi maggiore. La sforzo prodotto per creare un capolavoro d’inestimabile bellezza non convinse del tutto John, che qualche tempo dopo si lasciò sfuggire parole come “mi piace, ma non è bella neanche la metà di quanto pensavo mentre la stavamo facendo”, a riprova (semmai ce ne fosse bisogno), dell’impareggiabile genio della band di Liverpool. Sono passati cinquant’anni dal 1° giugno 1967. Ancora oggi, non abbiamo compreso davvero cosa sia Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, un monolite unico e irripetibile nello sconfinato universo musicale.