Cinema: il meglio del 2023

  1. Aftersun di Charlotte Wells
  2. The Quiet Girl di Colm Bairéd
  3. Close di Lukas Dhont
  4. Decision to leave di Park Chan-wook
  5. Tàr di Todd Field
  6. Babylon di Damien Chazelle
  7. Le vele scarlatte di Pietro Marcello
  8. Coup de chance di Woody Allen
  9. Oppenheimer di Christopher Nolan
  10. Asteroid City di Wes Anderson
  11. Animali selvatici di Cristian Mungiu
  12. Maestro di Bradley Cooper
  13. Il Sol dell’avvenire di Nanni Moretti
  14. Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh
  15. Godland di Hylnur Pàlmason
  16. Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese
  17. La bella estate di Laura Luchetti
  18. Saltburn di Emerald Fennell
  19. La primavera della mia vita di Zavvo Nicolosi
  20. L’innocente di Louis Garrel
  21. Un bel mattino di Mia Hansen-Løve
  22. Rapito di Marco Bellocchio
  23. Empire of light di Sam Mendes

In attesa di recupero:
Foglie al vento di Aki Kaurismäki 
The Old Oak di Ken Loach
Anatomia di una caduta di Justine Triet

Cinema: il meglio del 2022

  1. The Fabelmans di Steven Spielberg
  2. Nightmare Alley di Guillermo Del Toro
  3. Apollo 10 e mezzo di Richard Linklater
  4. Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson
  5. Piccolo Corpo di Laura Samani
  6. Rien a foutre di Emmanuelle Marre e Julie Loucostre
  7. Belfast di Kenneth Branagh
  8. Stringimi Forte di Mathieu Amalric
  9. Blonde di Andrew Dominik
  10. Giulia di Ciro De Caro
  11. Esterno Notte di Marco Bellocchio
  12. Elvis di Baz Lurhmann
  13. Full Time di Èric Gravel
  14. I morti rimangono con la bocca aperta di Fabrizio Ferraro
  15. Ennio di Giuseppe Tornatore
  16. Leonora Addio di Paolo Taviani
  17. Franco Battiato – La voce del padrone di Marco Spagnoli
  18. Moonage Daydream di Brett Morgen
  19. Il signore delle formiche di Gianni Amelio
  20. Occhiali Neri di Dario Argento

tre piani, tre storie, tre vite: genitori, figli, fantasmi

C’è un momento preciso in cui il cinema di Nanni Moretti ha dato una sterzata chiara e decisa verso una nuova prospettiva che fosse – non sappiamo se per sempre – lontana dall’approccio più “classico” della sua filmografia. Accade in Mia Madre, film precedente del regista romano: vedendo la sorella regista Margherita percorrere in senso contrario la lunga fila fuori dal cinema Capranichetta, Giovanni si avvicina lei e, con decisione, esclama “Fai qualcosa di nuovo, di diverso, dai rompi almeno un tuo schema, uno su 200“. Se nel film quel monito risultava l’invito ad una nuova consapevolezza, al lasciar andare la parte ansiogena per godere di più della sua vita, nella realtà di Moretti autore sembra quasi una dichiarazione d’intenti a sfuggire a certi canoni consolidati e, se vogliamo, anche da certa critica attempata. Tre Piani, adattamento dal meraviglioso romanzo di Eshkol Nevo, scritto con Federica Pontremoli e Valia Santella, arriva nelle sale a sei anni di distanza dall’ultima fatica (sarebbero stati cinque senza questa orribile pandemia), e porta con sé un accumulo di materiali personali e sociali che ritroviamo esplicati nello sviluppo del film. Un palazzo della Roma bene nel quartiere Prati, tre nuclei familiari, tre istanze. Al piano terra Lucio e Sara, genitori della piccola Francesca, che spesso trova ospitalità dagli anziani vicini Renato e Giovanna. Nel mezzo la neomamma Monica, costretta nella solitudine dal marito Giorgio che, per motivi di lavoro, è quasi sempre lontano da casa. All’ultimo piano l’inflessibile giudice Vittorio e Dora, con loro figlio problematico Andrea.

A partire dalla scena iniziale, anzi fin dagli algidi titoli di apertura che scorrono sull’immagine notturna della palazzina portando con sé una tensione tagliente e pesantissima, la dimensione della perdita, del dolore e poi del trauma si manifesta in tutta la sua carica emotiva, scuotendo subito lo spettatore. La straordinaria sequenza che apre la storia – non presente nel romanzo – è da manuale del cinema, con la sua fotografia perfettamente centrata nei punti di buio e quelli luce, nel pathos crescente e nel suo finale alleggerimento, ma purtroppo rappresenta l’apogeo dell’intera narrazione. Da li in avanti, l’elaborazione di tutti gli aspetti diventa meccanica, lineare e brutale nella sua approssimazione. Scegliendo di non lavorare tenendo fede alla natura epistolare del romanzo – ma aprendosi ad un racconto “corale” – l’eclissi narrativa di Tre Piani assume toni di una verbosità che troppo spesso lascia aperte tante porte ad un’analisi superficiale, dove il procedere per blocchi che avanzano di cinque anni non aiuta, sebbene sia comunque apprezzabile il tentativo sia di rilettura che in espansione della storia rispetto alla matrice freudiana di Nevo; a questo si aggiunge una natura didascalica evitabile e inusuale per Moretti, come risultano incomprensibili alcune scelte di regia che appaiono svogliate e scolastiche, lontane da quei movimenti di macchina (spesso impercettibili) che hanno caratterizzato l’ultimo ventennio morettiano (e lontanissima da quella macchina fissa caratteristica dei primi due film che, con straordinaria freschezza e arguzia critica, raccontavano ossessioni e ritualità di una generazione).

Se anche dal punto di vista fotografico Tre Piani non riesca ad estrarre il suo meglio, forse per colpa delle tonalità fredde e del cattivo uso della spazialità legata al palazzo, che avrebbe davvero potuto crearsi un ruolo da protagonista nella vicenda, le cose migliori vengono fuori dalle musiche del fidato Franco Piersanti, che in maniera sublime riesce a puntellare lo scombussolamento emotivo dei protagonisti, dal trattamento di alcune situazioni spinose della nostra quotidianità (come il sacrosanto dibattito sulla consensualità dei rapporti sessuali), dalla sempre sublime Margherita Buy, da un centratissimo Riccardo Scamarcio e dalla storia di Vittorio e Dora: la rettitudine di una coppia di magistrati continuamente minata dalle gesta fuorilegge di un figlio scapestrato, che riesce però a muovere i due crinali più importanti dell’intera storia. Il lavoro che Moretti realizza nello scandagliare certa borghesia è prezioso, perché apre le porte ad un mondo chiuso – che nel film è metaforicamente rappresentato dalla fortezza della palazzina – incapace di ascoltare il sentire esterno, in questo caso di un figlio continuamente vittima del “dover” essere qualcuno, sempre convinti che l’interno della vita personale vada strenuamente difeso, bloccando qualsiasi possibilità che questo venga messo in discussione. “Non si può costringere una donna a scegliere tra il marito e il figlio, e io ho scelto…” esclama ad un certo punto Dora, ed è senza dubbio il momento più violento dell’intero film. Dopo una vita sempre insieme, impossibilitati a lasciarsi andare anche davanti alla scelta più difficile, la presenza/assenza di Vittorio diventa l’unico modo di abbattere la fortezza e liberarsi, e mentre Dora chiude l’ultimo contatto telefonico raggiunge la consapevolezza che alcune volte abbiamo la necessità di un fortissimo dolore per poter ritrovare qualcosa che avevamo perduto. Nonostante qualche passaggio a vuoto di troppo (compresa un’eccessiva durata), Tre Piani è un film che merita assolutamente più di una visione, non solo per venire a patti con tematiche che riguardano tutti noi, ma soprattutto per una considerazione forse banale: scoprire come, nonostante oltre quarant’anni di carriera – e al netto di qualche indecisione – il cinema di Nanni Moretti sia ancora linfa vitale per chi riesce ancora ad emozionarsi davanti lo schermo della sala, a vivere la sacralità del momento in cui il vociare degli spettatori si abbassa, le luci si spengono e siamo tutti pronti ad assistere alla magia della settima arte.

Appunti di viaggio – Il Secchio, parte VI: piccoli inciampi, nuove soluzioni e la partenza

Ora che avevamo tutto, o quasi, passavamo le giornate a pensare e ripensare questa inquadratura o quest’altra, cosa accadrà nel momento delle riprese e come risolvere eventuali problemi. E il primo non tardò ad arrivare: l’appartamento scelto per le riprese non aveva elettricità, e con questo l’idea magnifica di portare la nostra storia lì naufragò, anche se non volevamo ammetterlo. Un sabato poi, Stefano venne a trovarci per i sopralluoghi di rito: pensammo a come mettere in scena i personaggi, i tagli da sfruttare e l’utilizzo della luce, ma tutto sembrava inutile di fronte l’impossibilità di girare lì. Se la stazione ferroviaria rimaneva l’unica certezza, anche la tavola calda inizialmente immaginata non poteva più ospitarci e allora, in quel preciso momento, con Claudio pensammo che qualcosa di storto stava tornando. Ma forse, fu proprio quella patina negativa a darci lo slanciò giusto, perché pochi giorni dopo contattai Valerio per chiedere lui un raccomandazione sul pub dove anni fa lavorava. Quando ci disse si, i nostri furono salti di gioia, e con Stefano eseguimmo un sopralluogo (negli stessi momenti della vista all’appartamento) che diedero grande slancio alla ritrovata fiducia e poco dopo, Claudio trovò la soluzione al nostro ultimo problema, riuscendo a trovare, grazie ad un amico, il luogo perfetto dove girare gli incontri privati tra i due protagonisti maschili. Ora finalmente tutto prendeva forma, e con tranquillità e grande eccitazione preparammo gli ultimi accorgimenti, dalla tuta da lavoro del protagonista da trovate alla scelta degli abiti dei protagonisti in tutte le scene, fino al piccolo spazio ristoro per la troupe. Eravamo lanciati, la macchina da presa stava per accendersi.

Appunti di viaggio – Il Secchio, parte V: l’appartamento, Sofia e Jacopo

Sceneggiatura pronta, troupe pronta, attore protagonista pronto. Le basi del nostro racconto erano ormai delle certezze, ma diverse preoccupazioni albergavano ancora nei meandri della mente: quando nacque l’idea di questa storia, avevamo ben salde le scelte da fare per i ruoli dei co-protagonisti, ma i primi tentavi andarono male e, complice il temporaneo abbandono del progetto, non avevamo impiegato molto tempo a cercare nuovi nomi. Con Claudio, nelle nostre continue discussioni, cercavamo ogni giorno quei volti che avrebbero potuto salvarci, ma spesso la ricerca andava a vuoto. Poi, quasi per caso, l’idea giusta: ricordando un vecchio cortometraggio realizzato ai tempi dell’Accademia, il volto di Sofia mi apparve chiaro, e capii che dovevo quantomeno tentare. In un caldissimo pomeriggio estivo, le scrissi un messaggio. Avevo un po’ di agitazione, ma questa si sciolse dopo pochi minuti: Sofia rispose subito con entusiasmo, la sua voglia sembrava superasse lo schermo del telefono per arrivare dritta al cuore. Parlammo velocemente, il film penetrava i suoi pensieri e poco dopo scrissi a Claudio tutto esaltato e lui, come potete immaginare, ebbe la stessa reazione. Sofia, senza che ce ne accorgessimo, aveva dato al nostro progetto lo sprint decisivo e nell’impeto contattai Jacopo, amico attore conosciuto durante la lavorazione di un film per un’importante casa di produzione: durante quel periodo, la nostra amicizia era cresciuta e cosi decisi di proporgli quell’idea. Avevo paura ad essere sincero, ma quelle sensazioni diventarono felicità quando disse “si, te lo avevo promesso”. La squadra era al completo e nel condividere l’eccitante prospettiva di questo progetto, Claudio ed io ci recammo in un piccolo appartamento di cui lui, tramite la madre, possedeva le chiavi: situato in un palazzo di quelli storici del centro, davanti a noi si aprì un luogo quasi sospeso, che sembrava volesse a tutti costi resistere all’andare del tempo. Austero nel suo essere cosi pieno di cose, arredato da colori sgargianti ormai appassiti, quella piccola porzione di mondo sembrava il luogo giusto per raccontare la nostra storia. Ci accorgemmo dei tanti problemi, ma l’impatto emotivo era talmente forte che, nelle settimane successive, non potevamo fare a meno di tornarci di tanto in tanto, anche solo per ammirarlo e colloquiare in tranquillità. Il Secchio stava prendendo forma.

Appunti di viaggio – Il Secchio, parte IV: scrivere, scrivere, scrivere

Ora il titolo potrebbe essere leggermente fuorviante, quasi a dare l’impressione che in tutto quel periodo precedente, non avessi scritto o pensato niente. Tutt’altro: nonostante l’accantonamento momentaneo, spesso con Claudio ci ritrovavamo a pensare soluzioni e idee per dare corpo alla nostra storia, e non di rado tutto questi pensieri finivano appuntanti sul pc o su qualche foglio bianco sparso qua e là. La prima volta che il progetto sembrava in procinto di partire, passammo diverse ora nella stanza della biblioteca comunale, protetti da centinaia di libri, a scrivere e dibattere su questo quest’altro, ma era stato, ahinoi, sempre uno specchietto delle allodole, quasi volessimo convincerci che il progetto fosse pronto quando in realtà le nostre idee vagavano altrove. Ma alla fine successe: fu una mattina di estate ormai inoltrata, il sole batteva forte sulla città e ci trovammo in casa mia a scrivere. Non so come successe, ma in poche ore tutto quello che avevamo in mente venne fuori così, naturalmente, quasi si appuntasse sul foglio il fluire dei nostri pensieri. Avremmo poi apportato modifiche qua e là ad ogni successiva rilettura, nel rapportarci con gli attori e la troupe, ma il grosso era davvero fatto. Non so ben dire come ci sentissimo, ma posso dire quasi felici ed era una sensazione che non sempre caratterizza l’umana vita. Qualche giorno dopo, inviai quella bozza a Stefano, il nostro direttore della fotografia e prima consigliere. Era entusiasta del progetto, fece tantissime domande per entrare nel tessuto visivo e narrativo della storia ancora di più. Adesso dovevamo trovare altri due attori, oltre che confermare la lieta novella a Valerio: avevo già i loro volti scolpiti nella mente, le scelte attoriali per me erano decise. Avrebbero dato alla nostra storia il nucleo perfetto per metterla in scena.

Lungo la strada con Clint

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Prima di iniziare a leggere quanto segue, c’è una premessa da fare: chi vi scrive è un amante incondizionato dell’opera cinematografica di Clint Eastwood, sia in veste registica che attoriale (ma chi può dire di non esserlo fino in fono?). Detto ciò, c’è un dato che non può passare inosservato: quest’uomo ha 89 anni. Lo scrivo meglio: ottantanove. Tanti muoiono prima di arrivarci, molti (purtroppo), non hanno più piene capacità psichiche e motorie. Sfido chiunque a trovare (in qualsiasi campo dell’arte), un autore così vivo e pienamente in controllo di sé come lui. Dopo questo cappello introduttivo, possiamo finalmente parlare del film. Diciamolo subito: occorre che vi alziate dalla sedia per andare al cinema. Aggiungo altro: prima di farlo, fate ammenda se, dopo Ore 15.17: Attacco al treno (che io stesso ho criticato), in molti avete pensato che la storia di Clint fosse finita. Il Corriere restituisce l’Eastwood migliore, quello che tanti di noi hanno cominciato ad amare con i suoi capolavori di inizio secolo (Million Dollar Baby e Gran Torino), offrendo l’ennesimo ritratto fedele degli Stati Uniti d’America, mostrando i suoi contrasti più vivi, non tralasciando il suo grande amore per la narrazione. Earl Stone è un vigoroso floricoltore che ha dedicato la vita al suo lavoro, lasciando alle spalle gli affetti della famiglia, cercando di essere qualcuno fuori di essa per non risultare il fallimento che era dentro casa. Solo e in crisi economica, quasi per sbaglio entra in un gioco più grande di lui, senza vie d’uscita ma non per questa sentendosi in gabbia. Eastwood richiama a sé il fido Nick Schenk (sceneggiatore di Gran Torino) e Bradley Cooper, per raccontare una storia ispirata ad un fatto di cronaca, tornando finalmente davanti la macchina da presa. Se, come sempre, non possiamo che rimanere affascinanti dalla recitazione, qui assistiamo a qualcosa di inaspettato: ammiccamenti con le giovani donne e impensabili passi di danza aprono la strada a nuove sfaccettature del personaggio Eastwood, non tradendo però la sua vera scorza, legata al patriottismo e ad una ironia sempre tagliente, che passa dalle battute di spirito alla critica sociale (i continui rimbrotti ai giovani ormai schiavi di internet o gli stereotipi su omosessuali e persone di colore).

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Quest’ultima considerazione, seppur lieve in superfice, nasconde una delle matrici cardine del cinema eastwoodiano (e un monito per gli autori di tutto il mondo): da noto repubblicano ed elettore di Trump, il regista non perde occasione per mettere in mostra la banalità del linguaggio comunque, facendo allo stesso tempo un ragionamento su forma e contenuto. Se è vero che termini costì inveiscano contro le persone a cui sono rivolti, allo stesso tempo l’ipocrisia generale ci ha portato alla condanna immediata di tali atteggiamenti, senza però sviluppare un ragionamento critico atto alla vera risoluzione del problema, o, tantomeno, all’analisi reale del dilagante fenomeno dell’offesa gratuita. Eastwood sembra dire “ok, la parola N**** è offensiva, ma voi tutti sapete il perché?”, ponendo il solito processo alle intenzioni che, come accade, nessuno prenderà mai in considerazione. Se dal punto di vista puramente registico siamo di fronte al più classico degli schemi di Eastwood, sempre molto asciutto, con panoramiche di straordinaria bellezza sul territorio americano, la forza del film sta tutta nella relazione dei personaggi con la storia in cui, eccezion fatta per Earl, svolgono un ruolo principalmente formale: i cattivi messicani del cartello non manifestano mai affondo la propria crudeltà, mentre gli agenti della Dea fanno da cornice ad una vicenda che non li impegna mai oltre il minimo sindacale. Seppur anziano, abbandonato e fragile, il regista riesce perfettamente a non rendere il protagonista un eroe, tendendo a manifestare principalmente i suoi aspetti negativi. Il lavoro sulle emozioni è graduale, parte dall’aridità del uomo e arriva ad una consapevolezza tardiva, che tenta in tutti i modi di riallacciarsi alle cose importanti della vita nel momento in cui le sta perdendo, e in questa visione, fondamentale è il rapporto con la giovane nipote, punto di legame tra passato e futuro. Un film che è una riflessione sul tempo, sull’importanza dei valori da proteggere, sugli effetti delle scelte sbagliate. Con il suo solito anti-moralismo, la critica ai cliché, l’inesorabile sfacciataggine, il dilagante senso dell’humor (non solo fatto di battute ma anche di momenti, come i complimenti al maiale migliore del mondo o l’intonazione dei classici americani alla radio come Ain’t That a Kick in the Head), Clint Eastwood realizza un film che non passerà alla storia, ma riconcilia con il cinema migliore. Inchino, signori!

Un film per ogni regista (dalla n alla z)

  • MIKE NICHOLS – Il Laureato
  • YASUJIRO OZU – Viaggio a Tokio
  • SAM PECKINPAH – Il Mucchio selvaggio
  • ROMAN POLANSKI – Rosemary’s Baby
  • NICHOLAS RAY – Gioventù bruciata
  • ROB REINER – Stand By Me
  • JEAN RENOIR – La regola del gioco
  • ALAIN RESNAIS – L’anno scorso a Marienbad
  • JACQUES RIVETTE – La Belle Noiseuse
  • MARTIN SCORSESE – Taxi Driver
  • RIDLEY SCOTT – Blade Runner
  • STEVEN SODERBERGH – Sesso, bugie e videotape
  • STEVEN SPIELBERG – Lo Squalo
  • FRANCOIS TRUFFAUT – I Quattrocento colpi
  • GUS VAN SANT – Elephant
  • LARS VON TRIER – Melancholia
  • PETER WEIR – Picnic ad Hanging Rock
  • ORSON WELLES – Quarto Potere
  • WIM WENDERS – Paris, Texas
  • BILLY WILDER – Viale del tramonto
  • ANDREI TARKOVSKIJ – Stalker
  • BELA TARR – Satantàngo
  • ERICH VON STROHEIM – Rapacità
  • ROBERT ZEMECKIS – Forrest Gump

l’ingiustizia morale delle istituzioni

Io-Daniel-Blake-il-film-dolce-e-amaro-di-Ken-Loach

Nel torbido e fervente clima politico che sta attraversando il nostro paese, ormai dilaniato non solo da una crisi senza uscita, ma soprattutto dalle chiacchiere dei soliti ciarlatani (al governo e all’opposizione), la prima serata di Rai 3 ha ben pensato di proporre una soluzione, o meglio, uno sguardo terribilmente attuale e reale, su cosa sia il cancro dei nostri giorni. Io, Daniel Blake, l’ultimo struggente film di Ken Loach, è una lezione di umanità diretta e potente, rivolta alle barbarie delle istituzioni come ghigliottine dei nostri giorni. E sebbene quest’ultime non siano il diretto responsabile del protagonista, di certo non si possono esimere dal ruolo di esecutori. A morire, ben prima dei corpi, sono le speranze, e Loach fa si che la sua cinepresa sia costantemente mezzo d’indagine sempre in disparte, esclusivamente funzionale alle diatribe sociali dei personaggi. Non basta unire le forze ai nostri giorni, quando ad uccidere le nostre vite sono gli stessi che dovrebbero contribuire a renderle dignitose. L’augurio, non solo a noi comuni mortali, è che i potenti del nostro vecchio e malandato paese, abbiano provato un po’ di compassione in questa visione, tra un bel pacco di soldi in tasca e uno nuovo tweet da inviare.