tre piani, tre storie, tre vite: genitori, figli, fantasmi

C’è un momento preciso in cui il cinema di Nanni Moretti ha dato una sterzata chiara e decisa verso una nuova prospettiva che fosse – non sappiamo se per sempre – lontana dall’approccio più “classico” della sua filmografia. Accade in Mia Madre, film precedente del regista romano: vedendo la sorella regista Margherita percorrere in senso contrario la lunga fila fuori dal cinema Capranichetta, Giovanni si avvicina lei e, con decisione, esclama “Fai qualcosa di nuovo, di diverso, dai rompi almeno un tuo schema, uno su 200“. Se nel film quel monito risultava l’invito ad una nuova consapevolezza, al lasciar andare la parte ansiogena per godere di più della sua vita, nella realtà di Moretti autore sembra quasi una dichiarazione d’intenti a sfuggire a certi canoni consolidati e, se vogliamo, anche da certa critica attempata. Tre Piani, adattamento dal meraviglioso romanzo di Eshkol Nevo, scritto con Federica Pontremoli e Valia Santella, arriva nelle sale a sei anni di distanza dall’ultima fatica (sarebbero stati cinque senza questa orribile pandemia), e porta con sé un accumulo di materiali personali e sociali che ritroviamo esplicati nello sviluppo del film. Un palazzo della Roma bene nel quartiere Prati, tre nuclei familiari, tre istanze. Al piano terra Lucio e Sara, genitori della piccola Francesca, che spesso trova ospitalità dagli anziani vicini Renato e Giovanna. Nel mezzo la neomamma Monica, costretta nella solitudine dal marito Giorgio che, per motivi di lavoro, è quasi sempre lontano da casa. All’ultimo piano l’inflessibile giudice Vittorio e Dora, con loro figlio problematico Andrea.

A partire dalla scena iniziale, anzi fin dagli algidi titoli di apertura che scorrono sull’immagine notturna della palazzina portando con sé una tensione tagliente e pesantissima, la dimensione della perdita, del dolore e poi del trauma si manifesta in tutta la sua carica emotiva, scuotendo subito lo spettatore. La straordinaria sequenza che apre la storia – non presente nel romanzo – è da manuale del cinema, con la sua fotografia perfettamente centrata nei punti di buio e quelli luce, nel pathos crescente e nel suo finale alleggerimento, ma purtroppo rappresenta l’apogeo dell’intera narrazione. Da li in avanti, l’elaborazione di tutti gli aspetti diventa meccanica, lineare e brutale nella sua approssimazione. Scegliendo di non lavorare tenendo fede alla natura epistolare del romanzo – ma aprendosi ad un racconto “corale” – l’eclissi narrativa di Tre Piani assume toni di una verbosità che troppo spesso lascia aperte tante porte ad un’analisi superficiale, dove il procedere per blocchi che avanzano di cinque anni non aiuta, sebbene sia comunque apprezzabile il tentativo sia di rilettura che in espansione della storia rispetto alla matrice freudiana di Nevo; a questo si aggiunge una natura didascalica evitabile e inusuale per Moretti, come risultano incomprensibili alcune scelte di regia che appaiono svogliate e scolastiche, lontane da quei movimenti di macchina (spesso impercettibili) che hanno caratterizzato l’ultimo ventennio morettiano (e lontanissima da quella macchina fissa caratteristica dei primi due film che, con straordinaria freschezza e arguzia critica, raccontavano ossessioni e ritualità di una generazione).

Se anche dal punto di vista fotografico Tre Piani non riesca ad estrarre il suo meglio, forse per colpa delle tonalità fredde e del cattivo uso della spazialità legata al palazzo, che avrebbe davvero potuto crearsi un ruolo da protagonista nella vicenda, le cose migliori vengono fuori dalle musiche del fidato Franco Piersanti, che in maniera sublime riesce a puntellare lo scombussolamento emotivo dei protagonisti, dal trattamento di alcune situazioni spinose della nostra quotidianità (come il sacrosanto dibattito sulla consensualità dei rapporti sessuali), dalla sempre sublime Margherita Buy, da un centratissimo Riccardo Scamarcio e dalla storia di Vittorio e Dora: la rettitudine di una coppia di magistrati continuamente minata dalle gesta fuorilegge di un figlio scapestrato, che riesce però a muovere i due crinali più importanti dell’intera storia. Il lavoro che Moretti realizza nello scandagliare certa borghesia è prezioso, perché apre le porte ad un mondo chiuso – che nel film è metaforicamente rappresentato dalla fortezza della palazzina – incapace di ascoltare il sentire esterno, in questo caso di un figlio continuamente vittima del “dover” essere qualcuno, sempre convinti che l’interno della vita personale vada strenuamente difeso, bloccando qualsiasi possibilità che questo venga messo in discussione. “Non si può costringere una donna a scegliere tra il marito e il figlio, e io ho scelto…” esclama ad un certo punto Dora, ed è senza dubbio il momento più violento dell’intero film. Dopo una vita sempre insieme, impossibilitati a lasciarsi andare anche davanti alla scelta più difficile, la presenza/assenza di Vittorio diventa l’unico modo di abbattere la fortezza e liberarsi, e mentre Dora chiude l’ultimo contatto telefonico raggiunge la consapevolezza che alcune volte abbiamo la necessità di un fortissimo dolore per poter ritrovare qualcosa che avevamo perduto. Nonostante qualche passaggio a vuoto di troppo (compresa un’eccessiva durata), Tre Piani è un film che merita assolutamente più di una visione, non solo per venire a patti con tematiche che riguardano tutti noi, ma soprattutto per una considerazione forse banale: scoprire come, nonostante oltre quarant’anni di carriera – e al netto di qualche indecisione – il cinema di Nanni Moretti sia ancora linfa vitale per chi riesce ancora ad emozionarsi davanti lo schermo della sala, a vivere la sacralità del momento in cui il vociare degli spettatori si abbassa, le luci si spengono e siamo tutti pronti ad assistere alla magia della settima arte.

Sulla infinitezza

Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2019, dove ha ottenuto il Leone alla miglior regia, l’ultimo film di Roy Andersson – arrivato nelle sale italiane solo a fine primavera 2021 – è una di quelle opere che non può mai passere inosservata. Continuando il lavoro messo in scena già nel precedente Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza (ma cominciato con il delizioso Canzoni del secondo piano, film che riportò alla regia Andersson dopo 25 anni d’inattività), il regista si affida ancora alle possibilità offerta dai Tableaux vivants a macchina fissa per comporre la struttura di Sulla Infinitezza, condensando frammenti singolari, grotteschi, tragicomici in un’estrema cura della messinscena. Lo spunto del titolo viene da Le Mille e una Notte, riferendosi a Sheherazade e alle storie che non smette di raccontare per allontanare il suo destino di morte; così i personaggi vengono presentati da una voce femminile che, all’inizio di ogni nuovo quadro, ci introduce con un “Ho visto…” dai toni fiabeschi, sebbene leggermente didascalico quando le immagini sarebbero giù sufficienti a mostrarci le intenzioni dell’autore. La ricerca, o meglio, la voglia di generare il giusto spaesamento nello spettatore sembra essere un divertissement ormai caro ad Andersson, che si muove in perfetto equilibrio su quel confine immaginario tra realismo e surrealismo, mostrandoci scene di vita quotidiane apparentemente silenti eppure permeate da un sottotesto che cova sotto la cenere: il cameriere distratto, il prete disperato che perde la fede, le ragazze che ballano su una canzone del dopoguerra, il dentista poco predisposto, l’uomo invidioso del vecchio compagno di scuola che non lo saluta, perfino un Hitler assediato dai bombardamenti nel bunker, quadri viventi di una personale visione della vita che, in Sulla infinitezza, Andersson mostra nella sua banale quotidianità, lasciando da parte estremizzazioni e cariche emotive, semplicemente facendo vivere momenti di vita vissuta che meritano di essere ricordati e altri che non lo meriterebbero affatto ma fanno comunque parte dell’andare dei tempi.

E in questa logica, l’uso dei Tableaux vivants serve proprio a mostrarci il tema della narratività cara al suo autore, l’inizio e la fine di una storia all’interno di un racconto, ovvero esibire l’interrogativo sulla possibilità stessa del narrare in generale e sul senso di ogni possibile narrazione a stabilire nessi, rispetto al tema della narratività, tra il cinema e le altre arti, in questo caso pittura e teatro.  In questo, Andersson, si rifà molto alla pratica del film saggio – cara ai formalisti russi ma anche al Godard degli anni ’80 – costruendo un film in cui si associano diversi materiali (le storie, le immagini, i rimandi letterari, la fissità teatrale delle inquadrature) che vanno in una direzione altra rispetto allo scorrere del film, ed esclusivamente solidale con le scelte formali e stilistiche. La freddezza nordica si nota anche nel particolare gusto con cui Andersson e il fidato Gergely Pálos (lo stesso del piccione), realizzano una fotografia con immagini dai toni anodini virate in seppia che non tradiscono la fascinazione per l’arte pittorica di riferimento – Brueghel su tutti, ma anche Cezanne e Hopper– dove la macchina da presa è sempre perfettamente simmetrica alle azioni sullo schermo, diventa occhio osservatore per eccellenza sapendo però distaccarsi tra storia e sua rappresentazione, quasi a creare una terza e nuova dimensione che permetta allo spettatore di creare in qualche modo un’idea, un pensiero su quanto mostrato. Una dimensione dove sembra abitare Andersson, che guarda con algido distacco quanto succede nel mondo indicandoci una strada che sembra quasi affermare che non possiamo avvicinarci al senso del film se non proiettando fuori dal film stesso i materiali che lo lavorano e che esso lavora. In appena 75 minuti, Sulla Infinitezza riesce a comunicare tanto della fragilità dell’essere umano, facendo volare su un’Europa in rovina degli amanti ispirati a Chagall per ritrovare il senso sfuggente delle storie, piccole e grandi.

*Questo articolo si avvale di alcuni stralci della recensione del film a cura di Claudio Fontani, sul blog Spiaggia Solitaria.

nordica nostalgia

“Don’t let them tell you, don’t let them tell you who you are”: dodici anni di silenzio sono tanti, specie in un mondo che viaggia alla velocità della luce e quando scendi alla fermata sbagliata sai già che risalire sarà davvero complicato. Eppure, nei versi di Rumors, brano d’apertura di Peace Or Love, i Kings of Convenience dichiarano subito cosa c’è dietro a tutto questa attesa, che è una sorta di invito a non accontentarsi, non dar motivo agli altri di convincervi a fare o essere qualcosa che non siete. Inizialmente concepito tra il 2015 e il 2016, il quarto lavoro in studio del duo norvegese inizia a prendere forma nel 2019, grazie ad una ritrovata ispirazione e la possibilità di intersecare le proprie esperienze di vita, che passano dalla freddissima penisola scandinava alla calda Siracusa, dai viaggi in Cile agli incontri speciali con l’amica Feist. E il tempo non sembra passato da quel folgorante esordio che fu Quiet is the new loud: chitarre fingerpicking, nostalgie dolceamare, voci bilanciatissime, all’unisono e al solito liriche che sanno emozionare e incuriosire con l’aura di candida malinconia che trascinano con se, a partire dalla già citata Rumors, passando per la briosa Rocky Trail, che inaugura la nuova fase della maturità guardando al passato, il tutto racchiuso in un video giocoso che mostra anche la particolare attenzione per la messa in scena e l’amore per i pianosequenza, come accadeva per MisreadMe in You etc. La straordinaria Feist entra in punta di piedi nella flebile incertezza di Love is A Lonely Thing e nella sublime Catholic Country, con il suo stile quasi bossanova e un refrain dubbioso e divertente giocato sul cosa aspettarsi e cosa volere. Gli echi pop di Angel, la disco retrò di Fever, i passaggi “maliconico naif” – come li ha definiti Erlend – di Killers e Song About It, le pagine folk che guardano ai sessanta come le scarne Comb My Hair e Ask For Help e infine la meravigliosa chiusura di Washing Machine, che torna con meravigliosi simbolismi alle difficoltà relazionali, rendono Peace Or Love una calda carezza di cui le nostre anime avevano bisogno, e soprattutto riportano in auge due autori di incredibile talento che, dopo essersi presi il loro tempo per scrivere, vivere e ritrovarsi, dimostrano che la musica sa esprimersi al massimo solo quando trova il momento di manifestarsi serenamente.

luci di una sera di fine estate

Credo non potessi augurarmi niente di più bello che una presentazione come questa: al netto di tutte quelle piccole, spesso inutili, difficoltà che si incontra nel percorso, la prima del film Gli Appuntamenti è stata proprio come l’avevo sognata. Un piccolo spazio, quasi nascosto, e l’improvvisa sorpresa di tante persone mai viste accorse ad alimentare la curiosità che in fondo è l’unica cosa che ci resta in questa vita di miserie, specie in questo folli ultimi anni. Io non so mica cosa fare in queste occasioni, e allora cerco di evadere il più possibile da quello che sono e godermi il momento, senza altri pensieri. E fa niente se questo significa svegliarsi la mattina, sfiancarsi in una partita di tennis, poi correre a pranzare da un amico, bere fino ad essere leggero e poi di nuovo correre verso casa, vestirsi e andare verso l’ignoto, non sapendo e forse con un minimo di tensione verso quello che succederà. Insomma, potrei scriverne di cose, scriverne davvero tante, di quanto fossi felice nel vedere tutti, nel mio contorcermi nascosto su una panchina mentre sullo schermo passavano le immagini del film, nell’imbarazzo del parlare davanti a tutti e non saper cosa dire. Ma sono sincero, queste cose annoiano fin troppo me che le ho vissute, figuriamoci gli altri. Allora facciamo cosi, elenco dei momenti indimenticabili: osservare il tramonto dal punto panoramico più bello con i ragazzi pochi distanti e Elena con me, che si prepara una sigaretta, e poi il mio amico Marco che doveva ripartire ma preferisce farlo il giorno dopo solo per me, nonostante avesse visto il film; l’arrivo di Giulia, inaspettato e speciale e le chiacchiere fino alle 2 della notte, con un vento gelido sulle spalle e la totale mancanza di freddo dettata dal momento pieno di gioia e adrenalina da consumare. I sorrisi sinceri delle persone care, gli applausi insperati, la mancanza di Doriana che sicuramente mi avrebbe reso ancora più felice e poi la speranza di ripetere tutto in loop in eterno. Un proverbio tedesco dice “nella vita ci si incontra sempre due volte”, e nel romanticismo di tutto questo, io spero di rivivere quei giorni sospesi in un mite settembre di un anno fa, che in maniera misteriosa magica e celeste, ho rivissuto in poche ore tutte insieme. E non serve altro per capire che vale la pena vivere.